«Non esistiamo più». Sono state le parole di una donna di Amatrice, la mattina del 25 agosto. Parole vere, che non possono essere, però, parole ultime. Vere perché non basta non essere morti per essere vivi. Sopravvivere è letteralmente “vivere sopra”: in questo caso, sopra le macerie di ciò che fu, tomba muta di troppe vite spezzate. Un sub-vivere in verità: vivere a propria volta sepolti, dal dolore, dallo strazio, dell’impotenza. Come nelle parole del salmo 42: «Le mie lacrime son diventate il mio cibo giorno e notte, mentre mi dicono continuamente: “Dov’è il tuo Dio?”». Ragione e fede mute, insieme.
Così come non basta avere un riparo per essere a casa. Nella società delle funzioni tendiamo a ridurre tutto allo scopo. Ma una casa non è una “macchina per abitare” con buona pace di Le Corbusier, e una chiesa non è solo un luogo di culto, così come una scuola non è solo il luogo dove si impara. Lo spazio per l’essere umano non ha solo funzioni (così come le persone non hanno solo ruoli) ma è denso di significato. Di storia, di vita. Un “mondo”, insomma. E abitare è partecipare di questo significato, che sostiene l’esistenza nel suo svolgersi quotidiano, e insieme lo arricchisce. Il paesaggio di Amatrice, e degli altri borghi sbriciolati dalla ferita della terra, è una realtà antropologica, non naturalistica o monumentale. È una unità affettiva, è lo spazio che l’occhio può abbracciare, ma che soprattutto riempie il cuore, e insieme lo allarga: è perché portiamo con noi un paesaggio che possiamo aprirci all’universale. Quindi il paesaggio è molto di più di quanto è visibile, dei colori e delle forme, dei profumi e dei suoni che i sensi possono catturare. Il rapporto col paesaggio è quello della gratitudine e dello stupore, non dello sguardo insieme rapace e distratto che lo usa come sfondo per un selfie.
Il paesaggio è il pezzetto dell’universo, che è “per noi”. È il sentiero che ci introduce a una totalità altrimenti inafferrabile, se non come astrazione lontana. I suoi significati più profondi e preziosi sono immateriali: una lezione importante in un tempo in cui conta solo ciò che si vede, che funziona, che produce effetti quantificabili. Soprattutto la poesia ha saputo coglierlo, col suo linguaggio insieme carnale e spirituale, concreto e universale. Ma anche le storie che si tramandano, le narrazioni che intrecciano luoghi e vite. Tutto questo impasto di materia e spirito, percezioni e narrazioni è paesaggio. Luogo della memoria, dell’identità, dei significati in cui una comunità si riconosce. Quindi ciò che è crollato è molto più di una serie di edifici.
È prassi per i conquistatori in tempo di guerra radere al suolo i simboli, i monumenti, le chiese, i luoghi di ritrovo. Insomma tutti i riferimenti attorno ai quali la vita collettiva si orienta, i ritmi prendono forma, le relazioni si sostengono, si costruisce un mondo. Una distruzione che vuole sequestrare il futuro. Qui la ferita è stata inferta da una terra madre diventata matrigna, non senza responsabilità umane, ma gli effetti percepiti sono di analogo annichilimento.
«Ogni persona ha un punto da cui guarda», scriveva Winnicot. E la prospettiva di questa gente è radicata in un paesaggio che dischiude uno sguardo particolare sulla realtà. Uno sguardo che ora è disorientato, ma irrinunciabile per l’umanità intera. Per questo non basta pensare genericamente a una ricostruzione di edifici. Per contenere gli effetti devastanti di questa frattura nelle biografie individuali e nella vita di una comunità non bastano gli aiuti, la solidarietà, la promessa di ricostruzione. Sono necessari, ma non sufficienti. Perché il tempo non si blocchi nel momento in cui le lancette si sono fermate, perché il trauma – il dolore degli impotenti – non uccida i sopravvissuti spegnendo le loro vite sono necessari due movimenti, che solo dall’interno delle comunità colpite possono venire, con l’aiuto di chi sta loro vicino e, per chi ci crede, della Grazia: resilienza e rinascita.
Resilienza, la capacità di sostenere gli urti senza spezzarsi, non è solo una proprietà della materia (quella che dovrebbe essere impiegata nelle zone sismiche) ma anche e soprattutto una capacità umana fondamentale, l’unica che consente un esito non devastante dei traumi.
Richiede qualità personali, ma soprattutto capacità e possibilità di condivisione: nessuno può affrontare il trauma da solo: trauma in greco antico, è ‘perforare’, ‘danneggiare’, ‘ledere’, ‘rovinare’: è insieme la ferita e i suoi effetti nel tempo, che non affrontati diventano ancora più devastanti. Il ‘sé danneggiato’ si ricostruisce solo nella relazione con altri, prendendo consapevolezza che ciascuno ha comunque un contributo da portare, un’eredità da far rivivere, una competenza da offrire. Che la ricostruzione sia partecipata e non studiata a tavolino, o nascerà un non-luogo sulle macerie di un luogo antropologico! Resilienza è dunque molto più che sopravvivere. È una capacità extra-ordinaria di rinnovarsi dopo una perdita. Di trasformare una ferita in un’apertura che lascia entrare luce nuova. Di mantenere un equilibrio e un atteggiamento costruttivo di fronte a esperienze soverchianti, di trasformare un sé ripiegato in un sé aperto, un io addormentato in un noi vivo; di affrontare le avversità e uscirne persino rafforzati è più uniti. Il dolore non si cancella, ma a volte ci rende più umani, ci apre gli occhi, ci aiuta a sbarazzarci del superfluo, ci regala la comunione con chi condivide, ci aiuta a vedere strade nuove. In esilio nella propria terra, sulle strade di un esodo non scelto, le vittime del terremoto sono metafora di una condizione umana in uscita che le pagine delle Scritture ci accompagnano a comprendere mentre ci invitano a percorrerla. Essere loro vicini significa anche imparare con loro questa lezione. Rinascita. Dalle storie dei campi di sterminio era emersa una costante antropologica: riesce a sopravvivere chi vive per altri. E riesce ad andare avanti chi riesce a raccontare, a reintegrare la frattura del trauma nella comunicazione e nella vita. A maggior ragione quando la successione delle generazioni è sovvertita: i nonni seppelliscono i nipoti, i destinatari delle storie non possono più ascoltarle e trasmetterle a loro volta.
Si può rinascere se dal dolore nascono frutti da donare. Se di questa esperienza si può fare un dono che aiuti altri. Raccontare per superare, ma anche per offrire. Non sempre si riesce a usare le parole: allora vanno bene le immagini, i disegni, il corpo: corpi irrigiditi dalla paura e dalla perdita, dallo choc di un soffitto costruito per proteggere che diventa pioggia di pietre assassine può trovare, per esempio, nel teatro un linguaggio per esprimere, comunicare, liberare. Sapendo che la liberazione non avviene per magia, così come la ricostruzione. Un dono che ci aiuta a deporre le nostre narrazioni di potenza e controllo, le nostre illusioni adolescenziali di autonomia assoluta per riconoscere, da adulti, un principio di realtà ineludibile: siamo fragili. Siamo gli uni nelle mani degli altri, speriamo mani pietose, e nelle mani di Dio. La terra, insieme grembo e tomba, ci ha messi di fronte all’intreccio inestricabile di vita e morte, vite spezzate e vite letteralmente rinate. Anche questa una lezione da imparare. Se non rinasciamo anche noi, le morti saranno state vane. Quotidiano rialzarsi è il gesto della fede. Aiutarci tra di noi a farlo è misericordia. Per questo le parole, vere, della donna di Amatrice non sono parole ultime. Perché, con Maria Zambrano, «senza rinascita, niente è del tutto vivo».